Carlo Cracco e la nuova identità della cucina italiana
Con le sue memorabili partecipazioni a Master Chef e alla serie Dinner Club, Carlo Cracco è tra i celebrity chef italiani più conosciuti. Ma con il suo locale a Milano, che è bar, bistrot e ristorante stellato, è anche un imprenditore attento al presente del suo settore, di cui è protagonista attivo dal 1997, quando ottenne la prima stella Michelin
Ora è in libreria con Cracco in Galleria, in collaborazione con Toilet Paper (Ippocampo Edizioni), e si prepara ad accendere i fuochi nella cucina del Corinthia, il nuovo cinque stelle lusso atteso a Roma nel 2026. Lo abbiamo incontrato per conoscere la sua storia e quella dei suoi piatti più famosi, la sua idea di tradizione e la sua visione del futuro della cucina in Italia.
Dove nasce il suo amore per la cucina?
Dalla curiosità. Fin da piccolo sono sempre stato alla ricerca di qualcosa che mi permettesse di partire e di scoprire quello che succedeva dietro le quinte. Una volta il cibo era più tradizionale, ma ti dava comunque la possibilità di viaggiare, vedere, conoscere.
“Cosa vai a fare a Milano?” le hanno chiesto quando è partito da Vicenza quarant’anni fa. Ha trovato quello che cercava?
Milano è il luogo delle opportunità e delle sfide. Ti mette alla prova e se sei bravo, ti dà la possibilità di crescere e di intraprendere la tua strada. Ci sono andato per imparare, e perché c’era Gualtiero Marchesi. Poi mi sono spostato all’estero per fare altre esperienze, ma quando ho deciso di tornare in Italia, è stato naturale scegliere Milano. È lì che volevo stare, più di ogni altro luogo.
Il libro Cracco in Galleria è un omaggio alla visione culinaria di Carlo Cracco e al suo ristorante, situato nella scenografica Galleria Vittorio Emanuele II, nel centro di Milano. Racconta la filosofia dello chef attraverso ricette, immagini e intuizioni che svelano l’identità gastronomica del locale: una cucina contemporanea che dialoga con il capoluogo lombardo, con la sua storia e con il rigore estetico che caratterizza lo stile di Cracco. Una finestra privilegiata sul suo modo di pensare e costruire i piatti.
Come nascono i suoi piatti?
Ciascuno ha una sua storia. Per esempio, l’uovo marinato è il frutto di un periodo particolare. Ero appena arrivato a Milano, dove c’era un grande fermento internazionale con la cucina molecolare di Ferran Adrià. Si stava definendo una cucina d’autore e ogni chef era alla ricerca della sua identità per stare al passo. In quel momento mi sono cimentato con l’uovo perché era un ingrediente che mi piaceva da sempre e con il quale avevo confidenza. Potevo mettermi alla prova, superare la tradizione e tutto quello che si era già visto. Quando poi trovi una tua visione, nascono tante altre idee, come la pasta senza farina.
E l’insalata russa caramellata?
Allora ero lo chef del ristorante Peck a Milano. L’insalata russa non doveva mai mancare nel menù. Però, diciamolo, non è che fosse così speciale, per me era un piatto degli anni Settanta che aveva fatto il suo tempo. E ci voleva un gran lavoro per ridurre le verdure a cubetti della stessa misura. Mi chiedevo chi volesse ancora l’insalata russa. Ma guai a fare quella domanda: mi guardavano malissimo. Anzi, qualcuno mi disse: “Se un giorno inventerai un piatto così, passerai alla storia”. E lì è nata la sfida. Visto che non potevamo cambiare la ricetta, abbiamo provato a cambiare il resto e a servirla in modo diverso: solo trenta grammi (la porzione giusta) tra due dischi di isomalto (un succedaneo dello zucchero che resta elastico), da prendere con le mani. C’è voluto un anno per metterla a punto, ma oggi è un classico della nostra cucina.
Qual è il suo ingrediente preferito?
(Ci pensa un po’, ndr). Il riso, perché ci faccio il risotto, che rappresenta il mondo in cui sono cresciuto. È un piatto versatile che, anche se in modo diverso, si fa sia a casa sia al ristorante. Poi, il riso all’onda è una delle poche ricette che non tramontano mai. È un esempio di come siamo sempre stati moderni in cucina noi italiani, soprattutto in Veneto e in Lombardia.
Cosa si mangia a casa Cracco?
Quello che capita. Sicuramente tante verdure, perché di proteine ne assumiamo fin troppe. Se riesco, cerco di aiutare in cucina e di coinvolgere i miei figli (ne ha quattro, dagli undici ai ventitré anni, ndr). Sanno che vivono grazie al mio lavoro di chef, e sono curiosi di capire come funziona.
Mangiate insieme?
Quando posso, sempre. Ceniamo presto, verso le sei e un quarto, in modo da esserci tutti.
Come vede l’alta cucina nei prossimi cinque anni?
Dico quello che mi piacerebbe vedere. Vorrei che diventasse un fattore più strategico per il turismo e l’accoglienza. Oggi i ristoranti sono trattati come qualunque altro esercizio pubblico, come un bar, una paninoteca, una pizzeria. Mancano gli investimenti, una visione, non siamo considerati un vero e proprio settore. Però se c’è il G7 in Italia, allora diventa prioritario trovare uno chef di cui fregiarci con le delegazioni internazionali! Dobbiamo farne un settore competitivo e un vanto, mentre ora ci sono problemi oggettivi come la mancanza di giovani che, diversamente dalla mia generazione, non vedono il lavoro nell’alta ristorazione come un’opportunità.
Perché, che cosa è cambiato?
Il modello del bel locale dove si mangia bene e dove c’è uno chef affermato funziona anche grazie al fatto che i cuochi sono usciti allo scoperto. Prima erano relegati in cucina, subordinati al patron e al maître; con Gualtiero Marchesi le cose sono cambiate, e hanno cominciato a diventare imprenditori, ad aprire i propri ristoranti fino a trasformarsi in star all’ennesima potenza con la televisione. Ma dopo il covid la tendenza è cambiata. I giovani pensano che cucinare sia un lavoro faticoso, non sono attratti da quei ritmi, dall’impegno richiesto, dagli stipendi bassi all’inizio della carriera. Sarà anche faticoso, ma è un mestiere stupendo perché sei a contatto con la gente, ed è pieno di opportunità per chi le sa cogliere. Purtroppo oggi lo vedo a rischio, se non entrano nuove risorse.
Quanto influisce l’alta cucina nell’evoluzione della cucina italiana?
L’alta cucina italiana non esiste. Non abbiamo la Chambre Syndicale de la Haute Cuisine, come in Francia. Però abbiamo contribuito a farla crescere da nord a sud, da est a ovest. In generale la ristorazione è cresciuta e anche l’alta cucina ha contribuito alla sua evoluzione. Ma non basta. Siamo tutti bravi, belli, fighissimi… ma bisogna lavorare in squadra per ottenere dei risultati, e questa non è proprio una dote italiana, anche se devo riconoscere che tutti gli chef hanno abbracciato e sostenuto la candidatura della cucina italiana a patrimonio Unesco. Un vanto per tutti, ma poi bisogna pensare al prossimo passo.
A breve aprirà il suo ristorante all’atteso hotel Corinthia, a Roma. Che stile intende proporre?
Roma, che adoro, ha una cucina popolare molto radicata. Ciononostante offre margini di interpretazione. Cercheremo di restare legati al territorio ma con il nostro stile. Siamo nel regno del quinto quarto, le idee non mancano per andare a fondo nello studio degli ingredienti tipici.
Farete anche la carbonara e la cacio e pepe?
Sicuramente, sono piatti veloci, che metteremo al bistrot.
Dove le piace viaggiare?
Dove non sono stato, quindi dappertutto. Mi ero prefissato di visitare due o tre Paesi nuovi ogni anno, ma al momento mi sembra un sogno irrealizzabile.
Cosa le piace fare quando viaggia?
Conoscere il posto dove mi trovo, capire come si mangia, le influenze, quello che ama chi ci vive e tutto il dietro le quinte.
Quanto conta per lei la gastronomia in un viaggio?
Dipende. Se trovo qualcosa di buono, sono felice, ma sono felice anche se non lo trovo. Sono sicuro che in Giappone mi divertirò ad assaggiare e a scoprire la loro cucina; se vado in Buthan, il cibo non sarà la mia priorità. Ciò detto, è comunque interessante capire cosa si mangia, e come si fa.
Con la serie Dinner Club ha percorso l’Italia in lungo e in largo. C’è qualche piatto che le è rimasto nel cuore?
In generale, la cosa che mi ha colpito di più sono le persone, perché, a prescindere dalla tradizione e dalla tecnica, fanno la differenza sul cibo. Nello specifico sono rimasto estasiato guardando le donne sarde che preparano i culurgiones come fossero dei diamanti da dieci carati. In quel momento capisci che la tradizione è nelle loro mani: non sono i culurgiones, ma chi continua a farli. E comunque, quelli che ho mangiato lì sono unici, irripetibili.